Premio Letterario Nazionale “Carlo Piaggia”
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Premessa

Da un punto di vista psicologico si può dire che ci sia analogia tra il viaggio inteso come conoscenza di realtà esterne (luoghi, culture, lingua ecc.) e il percorso di conoscenza di sé che può avvenire attraverso tecniche e strumenti terapeutici diffusi in questi ultimi decenni. Non è di quest’ultimo percorso che intendo parlare, anche se tale analisi relativa al proprio mondo interno presenta caratteristiche simili allo scavo dell’archeologo, a ritroso nel tempo alla ricerca delle origini dell’uomo e delle tracce di antiche civiltà.

Un altro aspetto collegato al viaggiare, visto non solo attraverso le categorie realtà  esterna/realtà interna, storia dell’umanità e del singolo individuo, ma anche attraverso le categorie di genere (maschile, femminile) potrebbe essere preso in considerazione. Ad esempio, si può partire dal luogo comune secondo cui “il viaggio è prerogativa maschile, la donna è sinonimo di stanzialità […] l’ardore a divenir del mondo esperto venendo rappresentato nella cultura occidentale come impulso maschile più forte di ogni richiamo centripeto verso la casa, il cerchio rassicurante rappresentato dalla fedele Penelope” (De Clementi, Stella, 1995).

Mi interessa invece delimitare il discorso alle implicazioni psicologiche ed emotive del viaggio, come avventura dello spirito al di fuori del quotidiano, come “scoperta del mondo, degli uomini, di se stessi” (Corna Pellegrini, 2000), per aiutarci ad essere più consapevoli del nostro rapporto con la nuova realtà. Mi risulta, infatti, che ci siano stati pochi tentativi di analisi interna al viaggiare, mentre esiste, viceversa, una discreta letteratura sul turismo responsabile, nel senso della conoscenza sia dei rischi, sia dei vantaggi che il mettersi in viaggio in luoghi lontani e sconosciuti comporta.

 

La partenza: metafora di nascita e di morte

Occorre rifarci all’etimologia delle parole per capire il loro significato originario e profondo. Partiamo dall’inizio della vita, quindi di un viaggio, qual è l’esistenza di ciascun individuo, a cominciare dalla nascita. I verbi partorire e partire, pur essendo diversi tra di loro, contengono entrambi il concetto di separazione, di distacco.

Derivano da pario (= partorisco), a cui è collegato parare (= acquistare, preparare), di  cui separare è un verbo composto che ha il significato di allontanare. Partire deriva da parte e significa, inizialmente, ripartire, distribuire le parti; partire è separarsi, “staccarsi dal luogo dell’identificazione collettiva per affrontare i rischi e il disagio del viaggio” (De Clementi, Stella). La partenza, nel suo doppio significato di iniziare, incominciare e, all’opposto, di finire e, in assoluto, di morire, è una sintesi simbolica “di un’esperienza universale in cui nascita e morte rappresentano momenti essenziali del far parte per se stesso nel processo di individuazione” (Ibidem).

 

Il processo di individuazione nel bambino e nell’adolescente

Il piacere di spostarsi da una situazione rassicurante come quella della propria terra d’origine o di adozione e del proprio nucleo familiare e di amici presuppone il superamento della fase simbiotica del bambino nei confronti della madre, separazione – individuazione che M. Mahler colloca alla fine del primo anno di vita e che si consolida nel secondo. Anche Bowlby (“La base sicura”) fa nascere da questo momento della vita del bambino e da questo tipo di rapporto con la madre il desiderio di esplorare il mondo. “Con l’impulso alla maturazione di funzioni autonome, come il pensiero e la deambulazione, inizia l’avventura amorosa con il mondo. Il bambino compie il più grande passo verso l’individuazione umana. Cammina liberamente in posizione eretta. Così, il campo visivo cambia; da una posizione completamente nuova scopre notevoli e inaspettate prospettive, soddisfazioni e frustrazioni […] è inebriato delle proprie capacità, continuamente soddisfatto per le scoperte che fa nel suo mondo in espansione ed è quasi innamorato del mondo e della sua grandezza e onnipotenza” (Mahler, 1980). Questo risultato è reso possibile da una buona relazione madre – bambino, che consente al bambino stesso, nel momento più opportuno, di sperimentare le proprie capacità di autonomia, fino a viversi come un individuo separato, con un’identità sufficientemente stabile e sicura. Più tardi, anche in adolescenza verrà sperimentata con analoga euforia una nuova modalità di separazione dal mondo degli adulti significativi. Con dei meccanismi specifici di questa età il processo di separazione – individuazione si ripresenta. Nuovi bisogni di autonomia e di indipendenza si alternano tra di loro in un individuo in formazione che stenta “a riconoscersi e a capirsi” (Senise, 1990), a causa dei grossi cambiamenti psicofisici in atto a questa età. È anche per questo, forse, che in adolescenza, “seconda nascita” (Winnicott), secondo grande momento di separazione alla ricerca di una propria identità, sono così importanti i viaggi, nuovi percorsi di conoscenza, crescita e formazione, veri e propri riti di iniziazione che segnano in modo indelebile la vita del giovane. Nel ‘700 e nell’800, secondo la tradizione europea, il giovane completava la sua formazione attraverso viaggi culturali (Grand Tour) nei luoghi considerati punti di riferimento della storia della civiltà. In un’età avventurosa per definizione come l’adolescenza si può presentare il rischio del disorientamento e della dispersione. L’esempio americano della “strada” (Kerouac) può significare anche la ricerca di una libertà senza limiti (come, d’altronde, anche il “viaggio” della droga), sintesi esistenziale di una condizione di disagio e rivolta giovanile. Anche il cinema (Easy Rider), la musica dei giovani, la poesia e la letteratura documentano queste esperienze.

 

Viaggio e quotidianità

Viaggiare rappresenta il superamento dell’abitudine, l’uscita dal rischio della massificazione che la vita quotidiana spesso comporta. È la rottura della routine, di schemi ritualistici e ossessivi cui il mondo del lavoro e della grande città ci ha abituato, con lo stress e la ripetitività dei ritmi che essi comportano. Questo, sia che il lavoro venga vissuto nelle sue “componenti libidiche, narcisistiche aggressive e perfino erotiche”, sia nel significato di “necessità “cui l’uomo è costretto e della “naturale avversione ad esso” che ne consegue, come scrive S. Freud in “Disagio della Civiltà” (Opere, 1980). Il viaggio è, insomma, “un momento di vita fuori della quotidianità, ma può essere prezioso anche per capire e riappropriarsi della vita quotidiana […]. Certo, per molti viaggiare è un antidoto all’ansia, una medicina contro i mali della vita urbana e la durezza di una società estremamente competitiva. È pure (o può esserlo) un arricchimento alla conoscenza di realtà anche lontane […]. Possibili incontri (in tal senso) se vissuti con uno spirito meditativo, e non come pura emozione consumistica, sviluppano una sensibilità nuova nel giudicare se stessi e l’ambiente esterno […]. Paesaggi diversi: non ci sono soltanto quelli reali. Altrettanto reali sono quelli descritti, raccontati o semplicemente sognati […]. La vacanza è un fatto dello spirito, più che una condizione di non lavoro […] e come tale frutto della pazienza, della moderazione e della curiosità” (Corna Pellegrini, 2000).

 

Emozioni del viaggio

Si può dunque vivere il viaggio come riappropriazione dei propri spazi di libertà e creatività. Il viaggiare può diventare questo momento di vita dell’individuo, il “tempo libero”, inteso come evasione, distrazione, vacanza ma anche come occasione di avvicinamento alle parti meno alienate di sé, sconosciute o trascurate, come ritorno alla natura, all’infanzia, alle proprie origini, come arricchimento e consolidamento di rapporti e conoscenze, come incontri di culture diverse ed elaborazione di nuove progettualità. Tutto questo implica una disponibilità a mettersi in gioco, ad affrontare l’ansia dell’imprevisto e dell’ignoto che ogni viaggio, anche quello più organizzato o vicino, comporta, ad abbandonare la sicurezza di ciò che è conquistato e garantito,

fuori dal cerchio della città e della casa in cui si vive. Per molti, tuttavia, il viaggio risponde a un bisogno narcisistico di conferma ed esibizione della propria immagine personale, di affermazione di potere e di prestigio, senza un vero arricchimento interiore. In qualche caso, invece, il viaggiare viene espresso attraverso sfide onnipotenti e controfobiche, quando non talvolta autolesive da parte di chi cerca l’avventura a tutti i costi in luoghi deserti o in paesi in guerra, rischiando seriamente di perdere il senso del limite e della propria identità, come narrano le cronache di situazioni estreme o film che riflettono esperienze reali. Fin dall’antichità viene riconosciuto come eroico, ma insieme punito, l’ardore dell’uomo per la conoscenza che oltrepassa lo scibile, come quello di Ulisse nell’inferno di Dante il cui viaggio è considerato un “folle volo”.

Un accenno fugace va fatto rispetto a ciò che precede il viaggio, la progettualità, la fantasmatizazzione legate ad esso. Anche la scelta delle mete (l’India, ad esempio, come racconta chi l’ha visitata, vissuta come un utero materno per l’accoglienza e la semplicità dei suoi abitanti) è significativa per le valenze simboliche e la capacità di suggestione che esprimono. La spinta iniziale può essere la curiosità, le fantasie che suscitano certi posti piuttosto che altri, il gusto del proibito: trasposizioni della curiosità infantile nei confronto del corpo materno.

Accogliere queste emozioni essendone consapevoli è importante, così come recuperare “lo stupore infantile” (Zolla) che ci consente di scoprire il mondo con occhi nuovi. Il giorno della partenza può comportare vissuti di abbandono, di perdita, sentimenti di colpa verso ciò che si lascia (luoghi, persone care, ecc.). Queste sensazioni spiacevoli possono essere contenute dalla scelta rassicurante di un viaggio organizzato, con amici fidati, ciò che può ridurre l’ansia collegata ad esempio il percorso in aereo o in mare. Se tuttavia l’individuo non ha costruito adeguatamente il proprio Sé, non ha raggiunto un’identità stabile, non può ricercare il sostegno in programmi turistici attraenti o nei compagni di viaggio. Se è vero, infatti, che il viaggio può avere valenze terapeutiche, non può, da solo, funzionare come una cura. Come scrive Orazio nella XI epistola “Coelum non animum mutant qui transmare currunt”.

 

L’arrivo

L’arrivo nel posto desiderato comporta il raggiungimento di un traguardo e di un appiglio, implica una pausa, una sospensione di un flusso sempre più minaccioso che suscita ansie persecutorie, implica la realizzazione di un’aspettativa. Si pensi alla necessità diffusa di informare subito i congiunti sull’andamento del viaggio, alla situazione più rilassata e tranquilla di chi ha raggiunto l’albergo, nuova casa, guscio protettivo, punto di riferimento e di ristoro, per poi ri-incamminarsi verso nuovi orizzonti, nuovi percorsi con le aspettative, gli abbandoni, le ricerche, i ritrovamenti, e ancora i ritorni che essi comportano. La fine del viaggio, il ritorno, è una ricongiunzione circolare al punto di partenza, recupero di ciò che è noto e caro, in cui è implicito il concetto di nostalgia. E tuttavia possiamo concordare con Kavafis che il valore del viaggio non consiste nell’arrivo alla meta, quanto piuttosto nell’esperienza stessa del viaggiare.

 

“Itaca t’ha donato il bel viaggio / Senza di lei non ti mettevi in via / Nulla ha da darti più. / E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso / Reduce così saggio, così esperto, / avrai capito che vuol dire un’Itaca.” (da Itaca di C. Kavafis)

 

Contributo di M. Gabriella Carbonetto, Aript