Premio Letterario Nazionale “Carlo Piaggia”
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CARLO PIAGGIA

Si creano le basi di un impietoso sfruttamento commerciale. Come risplende, allora, ai nostri occhi, la figura luminosa di Carlo Piaggia, il viaggiatore originario di Lucca…

Léopold Sédar Senghor, 1986

Volevo conoscere un poco anch’io il nostro mondo e vedere specialmente ciò che altri non hanno visto. (Carlo Piaggia)

Chi era Carlo Piaggia?
Un esploratore, un cacciatore, un mercante?
Certo, tutto questo e anche qualcosa in più.
È difficile inquadrare la sua personalità nell’affollata platea degli esploratori del bacino del Nilo.
Sicuramente, come molti altri, Piaggia era spinto da una curiosità divorante per il nuovo, e agitato da un’irrequietezza di fondo che lo trascinava a fuggire dal quotidiano.
L’Africa fu per lui la grande occasione di un’esistenza diversa.
La semplice e sincera confessione di Joseph Thomson, il viaggiatore scozzese che attraversò le steppe dei Masai fino alla regione dei Grandi Laghi equatoriali, sembra attagliarsi perfettamente alla sua figura: “Sono destinato a essere nomade. Non sono un fondatore di imperi, né un missionario, e neanche un vero scienziato. Voglio solo tornare in Africa per continuare i miei vagabondaggi”.
Carlo Piaggia partì per l’Africa nel 1851, all’età di ventiquattro anni.
Nacque il 4 gennaio 1827 da una famiglia di contadini di Badia di Cantignano a Capannori (Lucca): era sprovvisto di cultura accademica e scientifica, ma in compenso dimostrava un’incredibile versatilità negli affari pratici, che gli consentiva di imparare qualunque lavoro in poco tempo.
Nell’ambiente vivace e cosmopolita di Alessandria d’Egitto, Piaggia si trovò perfettamente a suo agio: fece il pescatore di conchiglie nel mar Rosso, il legatore di libri, il cappellaio, il verniciatore, l’armaiolo e altri mestieri diversi.
Nel 1856 lo troviamo a Khartoum, in compagnia di un gruppo di mercanti bolognesi e francesi, intento alla caccia dei marabù (le cui piume erano allora esportate in Europa come articolo di lusso).
Fu allora che Piaggia scoprì la sua indole di viaggiatore.
Lasciò Khartoum e si mise a risalire il corso del Nilo, attraversando le grandi paludi che il fiume forma alla confluenza con il Sobat, e giungendo fino all’avamposto di Gondokoro, dove erano sorte le prime missioni cattoliche.
Piaggia vagabondò per ben tre anni su e giù per il fiume, a caccia di elefanti, entrando in diretto contatto con la sordida realtà del traffico degli schiavi.
A ovest del Nilo si estendevano le immense regioni del Bahr al-Ghazal, il Fiume delle Gazzelle, soglia di accesso all’impenetrabile cuore del continente, allora completamente sconosciuto all’Europa (ma non ai mercanti di schiavi musulmani).
Le notizie che giungevano ai villaggi lungo il Nilo parlavano di animali misteriosi e popolazioni di cannibali con la coda.
Dai tempi di Erodoto la conoscenza di quelle terre non era progredita di un solo passo.
Piaggia tornò in Italia, ma non vi restò a lungo.
Il demone della scoperta lo aveva ormai catturato.
Qualche tempo dopo rieccolo a Khartoum, che allora funzionava come trampolino di lancio per le spedizioni dirette verso l’interno del continente.
Dopo lunghe trattative riuscì ad aggregarsi a una carovana di mercanti di avorio: in cambio della sua guida, una scorta armata lo avrebbe accompagnato fino ai primi villaggi dei temuti Azande, detti “niam-niam” e considerati cannibali.
Prima di partire, in un paio di settimane, aveva raccolto materiale e provviste.
Ben poca roba, a quanto risulta: cinquanta chili di biscotti, un po’ di riso, zucchero, caffè, fiammiferi, candele, pochi metri di tela di cotone bianco, filo da cucire e “una piccola tenda da viaggio, una cassetta di ferri per la riparazione delle armi da fuoco, cento libbre di piombo da caccia, palle, un migliaio di capsule, una trentina di scatole di polvere da caccia, i ferri da falegname, un cannocchiale, un termometro e una bussoletta tascabile”.
Il bagaglio di un artigiano più che di un esploratore di terre ignote.
Le popolazioni locali ostacolarono duramente la marcia della colonna, che si salvò a stento da un incendio appiccato dagli indigeni alle erbe della savana.
Dopo un mese la carovana arrivò ai limiti del territorio dei famigerati Niam-Niam.
Il comandante dei soldati fece firmare a Piaggia un documento che lo scaricava di ogni responsabilità e tornò immediatamente indietro.
Piaggia rimase solo e ben presto fu avvicinato dal capo di un vicino villaggio, che lo accolse amichevolmente.
Fu alloggiato in una capanna costruita apposta per lui e per le mogli che senz’altro, nella sua posizione, sarebbe stato suo diritto avere.
Piaggia restò fra i “niamniarri”, come li chiamava lui, per più di un anno e mezzo.
All’inizio aveva una gran paura di essere mangiato dai suoi ospiti (vedeva ovunque inquietanti segni di antropofagia), poi si tranquillizzò e si tuffò con zelo nella nuova vita.
Per ingannare il tempo andava a caccia di uccelli rari per le sue collezioni, discuteva con i fabbri del luogo sui metodi più pratici per lavorare il ferro e costruì con mezzi di fortuna un mulino per macinare le sementi.
La novità destò grande entusiasmo nel villaggio, ma pochi giorni dopo il re ordinò di distruggere il macchinario, in quanto invenzione foriera di inquietanti novità, poiché “le donne non sanno più cosa fare, invece di restare nelle capanne vanno nei boschi… e la donna quando non lavora va in cerca dell’uomo”.
Nel frattempo gli abiti e gli stivali di Piaggia erano andati a brandelli e l’esploratore dovette adattarsi a vestire di pelli e a camminare con sandali di cuoio di bufalo da lui stesso confezionati.
Intanto, giorno dopo giorno, Piaggia annotava sul suo taccuino tutto ciò che vedeva, disegnando come gli riusciva sagome di capanne, pipe, scudi e utensili.
Forse le sue descrizioni dei Niam-Niam appaiono oggi ingenue e imprecise, prive di metodo scientifico, ma restano comunque una testimonianza importante per l’atteggiamento di rispetto e simpatia che ne guida lo stile.
Era la prima volta che un viaggiatore bianco si adattava per così lungo tempo, in totale isolamento dal mondo esterno, ad affrontare la vita quotidiana e i problemi di un popolo considerato primitivo.
Gli appunti di Piaggia furono largamente sfruttati dall’esploratore baltico Schweinfurth, che si recò pochi anni dopo in quelle regioni.
L’opera di Schweinfurth, intitolata “Nel cuore dell’Africa”, ebbe un grande e immediato successo editoriale.
Invece Carlo Piaggia, poco istruito e incapace di bella letteratura, non riuscì mai a far pubblicare i suoi voluminosi manoscritti.
Eppure Piaggia fu, più di altri, cronista attento e acuto: dei Niam-Niam annotò le tecniche dì estrazione del ferro e di fusione del minerale in forni di terra cruda, le usanze alimentari, le relazioni sociali e le pratiche religiose, descrivendo anche la fauna della zona e le caratteristiche del territorio (la definizione “foresta a galleria” è di sua invenzione).
I suoi rapporti con gli africani furono sempre ottimi.
Il ritorno con la carovana dei mercanti fu un disastro: i soldati razziavano e uccidevano uomini, donne e bambini, lasciandosi dietro terra bruciata.
Infine, sulla via di Khartoum, la barca di Piaggia naufragò nel Nilo: alcuni uomini furono divorati dai coccodrilli e molte delle collezioni ornitologiche e parte degli appunti andarono irrimediabilmente perduti.
Dopo un breve soggiorno in Italia, Piaggia tornò per l’ultima volta in Africa, deciso a proseguire i suoi viaggi nell’interno.
Poche cose colpiscono il viaggiatore africano come il baobab, che con la sua mole gigantesca e contorta si erge in mezzo alle distese di erba gialla che si prolungano all’infinito verso l’orizzonte.
Sotto uno di quegli alberi maestosi, chissà dove, giace ancor oggi Carlo Piaggia, morto il 17 gennaio 1882 di febbri sulla pista che dalle pianure del Sudan meridionale corre verso le montagne etiopiche e le gole del Nilo Azzurro.
Carlo Piaggia, Vagabondo del Nilo – Paolo Novaredo

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