Premio Letterario Nazionale “Carlo Piaggia”
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Meoni Caterina

Una serata ventosa

L’aria era fredda quella sera, un vento leggero rumoreggiava tra gli alberi della collina e le gocce di pioggia si facevano più intense. Il mio giacchetto di pelle rossa non bastava a tenermi al caldo. Da lassù si vedeva bene la città, i punti bianchi e arancioni delle luci, le strade che rendevano continua quella grande distesa e il manicomio che interrompeva la luminosità della notte. Vivere in campagna aveva i suoi pregi e i suoi difetti, e la vista che potevo ammirare dal giardino era sicuramente la cosa che preferivo.

Non dormii molto, continuavo a rigirarmi nel letto pensando a cosa sarebbe successo il giorno dopo, a come avrei reagito vedendolo là. Tutti non facevano che chiedermi come stavo, ma io non lo sapevo. Come si poteva stare a quattordici anni appena persi i genitori… per me era come se fossero ancora vivi, partiti per un viaggio. Prima o poi li avrei rivisti entrare in casa.
Al mio risveglio una figura alta e snella era seduta sul letto, la sua mano mi accarezzava i capelli e i suoi occhi nocciola fissavano i miei. Era la conferma di quello che era successo: mia sorella non mi svegliava mai così, e non stava a guardarmi mentre dormivo, era più un tipo che preferiva urlare e buttarmi letteralmente giù dal letto.
A colazione lei e nonna continuavano a chiedermi cosa volevo da mangiare, come se riempirmi di cibo potesse far star meglio tutti. Cercai di essere il più gentile possibile. Le vedevo così tranquille che temevo di rompere il loro equilibrio.

Non ero mai stata in un tribunale, e l’idea di vedere quell’uomo mi innervosiva parecchio.
Mentre il paesaggio di campagna scorreva dietro il finestrino, ricordavo le domeniche di sole al mare, le gite in montagna, il barbecue, le serate quando diluviava e io mamma e babbo ci rannicchiavamo su un divano per due senza lamentarci, perché così si stava bene. Erano pezzi di quotidianità che non avrei più riavuto indietro.
L’edificio era scuro, color mogano, con i soffitti alti sopra di noi. Qualcuno ci accompagnò nella nostra aula, una sala con file di panche sui lati e una grande cattedra rialzata sul fondo.
Non sapevo cosa avrei dovuto aspettarmi, sapevo solo che quell’uomo aveva aggredito mio padre mentre era in servizio, aveva preso la sua pistola e l’aveva puntata contro mia madre. Mentre lei cercava di aiutare suo marito steso a terra, fu sparato il primo colpo, l’uomo urlava sempre più forte e chiedeva quale fosse la combinazione. Poi si sentirono i rumori delle sirene, e lì fu sparato il secondo colpo.
Morirono uno accanto all’altro. I nostri genitori.
Queste cose le avevo sentite quando le raccontavano a mia sorella alla centrale. La guardai di profilo, seduta accanto a me, silenziosa come suo solito, le presi la mano e la strinsi nella mia. La sua espressione rimase la stessa per tutta la durata del processo, solo all’inizio, quando vide quella figura alta, scheletrica, impressionante, la sua faccia si fece più dura, strinse le dita in pugno e poi le lasciò andare. Mi baciò sulla fronte.

Ora dovevano decidere la pena. Lo psichiatra sosteneva l’incapacità di intendere e volere. Lui si dichiarò colpevole, ammise di averli uccisi, capii che il suo avvocato voleva ottenere uno sconto per la sua malattia psichiatrica e che richiedeva un’assistenza presso un centro specifico. Capii quanto gli avevano dato, quanti anni doveva stare in prigione. Sentii qualcuno dire a mia nonna “ha ottenuto quello che si meritava, giustizia” con un tono di appagamento, come se ci fosse da esserne felici, ma io non mi sentivo felice o sollevata, anzi, dentro di me non era cambiato nulla.
Uscite dall’aula, tutti ci si buttarono addosso, chi voleva farci sapere che non eravamo sole, chi si preoccupava di come stavamo e chi ci diceva che belle persone fossero mamma e papà. Io volevo dirglielo che lo sapevo. Erano i miei genitori.

Nonna andò a prendere due gelati alla gelateria all’angolo tra il parco e il tribunale. Rimasi sola con Marta su una panchina. Di fronte a noi c’erano due ragazzi che giocavano a calcio, una ragazza leggeva all’ombra, e un signore portava a spasso il cane. Lo sguardo di mia sorella era fisso su di me. Ero spaventata, cosa avrei dovuto fare adesso? Continuare la mia vita normale? Cambiare casa? Città? Marta era grande, ma aveva ancora molto da studiare prima della laurea e non penso avesse in progetto di ritrovarsi me tra le scatole. Forse mi aveva letto nel pensiero, perché prese la mia testa tra le mani e disse di non preoccuparmi, non ero sola. In quel momento le credetti, avere lei era qualcosa di così grande che bastava alla mia vita.
Nonna tornò con i gelati. Finii il mio immediatamente, come mio solito, poi mi alzai. Mi parai davanti a loro e le abbracciai, il più forte che potevo. Le abbracciai per dirgli che tutte insieme ce l’avremmo fatta, per fargli sapere il bene che gli volevo.
Rimanemmo così per un bel po’.