Premio Letterario Nazionale “Carlo Piaggia”
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Iacono Angel

Involontaria speranza

“Credo che sarà oggi.”. Volevo che lo fosse.
“Perché mai? Dammi un’altra occasione.”
“Perché ne ho abbastanza.”
“Calmati e ragioniamone.”
“Grazie del suo aiuto.”, riagganciai.
Quel giorno questa fu la mia conversazione col Sr. Vanzo.
Dopodiché entrai nella tavola calda e mi sedetti vicino alla finestra che dava sulla strada, poi mi voltai in cerca del cameriere e la vidi. Non era come le altre, aveva un’età indefinibile. Il suo corpo diceva: “non sono grande ma so difendermi”. Come un coltello a doppia lama, incantava col suo fascino, e sapeva fare male. La pelle bianca ingiallita dalle lampade del locale; i capelli neri come l’inchiostro della goccia che portava sotto l’occhio sinistro; gli occhi verdi: non un verde erba, non un banale verde-terra. Un verde smeraldo che mi paralizzò: persa nei meandri della mia mente inseguendo qualche ricordo. Mi infuse serenità e voglia di fare, come spesso fa il primo raggio dell’alba, come in quelle mattine in cui vorresti mettere fine a tutto, però poi guardi il cielo e decidi di aspettare. Così la guardai e non capii come una creatura del genere potesse lavorare in un locale così anonimo, fra quella gente. E poi, forse un lampo di genio, o forse solo egoismo, pensai che non potesse essere lì per caso, che forse era lì per me, perché la vedessi. Perché catturassi l’aura che sprigionava. Così mi ritrovai in quel pomeriggio d’agosto, per un tempo indefinito, a ritrarre la sua figura: presi una matita e un foglio, e abbozzai i primi schizzi guardandola servire ai tavoli, con quel garbo che ti scalda il cuore, facendoti sentire più importante di quanto tu possa immaginare.
Sì, lei faceva questo: ti rendeva felice di esistere. Ma non doveva esserne cosciente, perché non si fermava mai, sempre diligentemente al lavoro, mai una distrazione, mai una pausa. Fu questo che, a un certo punto, la portò al mio tavolo, e io, intenta al disegno, mi ritrovai spiazzata, senza niente da riferirle, perché, catturata da lei, non avevo neanche sfogliato il menù. Per evitare il silenzio, ordinai prontamente la specialità del giorno. I nostri sguardi si incontrarono.
Sul suo sguardo si poteva aprire uno studio, se solo avesse potuto essere trattenuto, veloce come lei, tanto che alla mia risposta la mia musa si congedò fulminea con la promessa di tornare. Molti dettagli mi convinsero che lei non dovesse stare lì: i capelli ricordavano la vista del mare di notte, un mare increspato, delimitato da due rasature alte fino alla punta delle orecchie da entrambi i lati e che lei aveva raccolto in un nastro anni cinquanta rosso scarlatto; dello stesso fuoco era la t-shirt che portava, i pantaloni neri, a richiamo dei capelli, nascondevano tasche, taschine e cerniere, infine spiccavano degli scarponcini verde militare a metà polpaccio.
Quegli abiti la rendevano forte: donna, ma non sottomettibile. In più si aggiungeva quel suo tatuaggio a goccia, che mi turbava insinuando il dubbio se fosse lì a segnalare la sua tristezza, o perché si sposava bene col suo sguardo tenace, col suo mistero. Il sorriso aveva qualcosa di inaspettato, non era di circostanza, era spontaneo, come se veramente le piacesse stare lì a fare il suo lavoro. In tutto ciò che in lei affascinava non c’era traccia di trucco, sul suo viso nemmeno l’ombra, era la bellezza di una cosa naturale, che non si nasconde, ma si pone per ciò che è, come a sfidare la vita a reggere il confronto. Mi accorsi di nuovo troppo tardi che lei stava tornando al mio tavolo, con un piatto caldo di qualcosa a cui non feci caso. I nostri sguardi si trovarono di nuovo l’uno nell’altro e tutto quello che riuscii a fare per evitare che il suo scappasse di nuovo fu chiederle “Qual è il tuo fiore preferito?”. Non se l’aspettava, d’altronde non era una domanda che ci si sarebbe aspettati in un contesto simile, ma senza scomporsi troppo, rispose con sicurezza e sorridendo, come se quel fiore le ricordasse qualcosa di nostalgico: “La pervinca.”
Poi tornò a volare tra i tavoli.
Uscii dal locale e chiamai l’unica persona che mi era stata vicino negli ultimi tempi.
“Ho cambiato idea. Non oggi. Non ancora”
“Grazie al cielo, qualcuno deve averti fatto cambiare idea.”
“Non lo so. Forse domani, forse.”
Poi tornai a casa, a mettere insieme schizzi e bozze per ricavare il ritratto che più si avvicinasse all’idea di lei. Il mattino dopo feci tappa dal fioraio, cercando le pervinche che più mi ispiravano, quelle che più sapevano di lei. La strada fu un tormento, cosa fare, cosa dire, ero armata solo di un disegno e di un mazzetto di fiorellini, e così mi ritrovai inaspettatamente presto davanti a quella porta. Entrai con l’autorità di una bambina che entra in classe in ritardo, timorosa del giudizio della maestra. Mi sentivo viva dopo tanto tempo. Scostata la porta, la vidi. Sempre un passo avanti agli altri, con quel sorriso da primo giorno di scuola, come se ogni giorno dovesse essere il primo giorno, e non l’ultimo come ero solita pensare io. Avanzai e la sorpresi proprio in un momento di calma, mi scusai per averla presa a modello senza chiederle il permesso, le detti le pervinche che le fecero colorire un po’ quel bianco che aveva sul viso, e poi il ritratto con sotto la frase “Sai donare alle persone la voglia di vivere un giorno in più”.
Subito dopo scappai via, prima che lei potesse sortire ancora una volta quell’effetto su di me. Chiamai lo psichiatra Vanzo.
“Forse è questo il momento, forse.”
E con il ricordo di lei mi diressi verso un orizzonte indefinito che mi avvolse.