Del Carlo Elisa
Cresciute insieme
Ti ho sempre considerata una roccia. Una spalla su cui appoggiarmi e sentirmi sicura. Una compagna con cui condividere diari segreti, le cuffie per ascoltare la musica, ti ricordi, io la destra e tu la sinistra, con cui saltare sul letto e fare battaglia di cuscini, travestirsi per i Comics e andare al Luna Park. Se mi chiedessero il primo ricordo che ho di te, non so rispondere, perché negli anni di ricordi ne abbiamo collezionati tanti. Cantavamo a squarciagola “la notte dei desideri” davanti a un pc, costruivamo pupazzi di neve tra le viti in giardino, giocavamo a mamma e figlia con il nostro caro vecchio Tobia, che ora è chiuso in soffitta tra altri logori pupazzi. Io ero la mamma e tu la figlia. Sempre. Non che avessimo mai discusso su chi doveva fare un ruolo e chi l’altro, l’anno che ci separa e che, tra noi due, mi faceva essere la più “vecchietta”, lo decideva al posto nostro. Eppure, sei sempre stata tu quella matura, quella coscienziosa… io ero la metà più giocosa. Tu mi parlavi della verifica di matematica, io ti portavo sulle macchinine a scontro. E non pensare che mi dimentichi quei calci in culo su cui non sei mai voluta salire! La scuola ti dava sicurezza, era un’arma, il tuo cavallo di battaglia.
Capii che era cambiato qualcosa dai primi messaggi, sempre più rari, corti, sbrigativi. Tutte le volte “come va?”, “bene”, “che mi dici della scuola?”, “tutto normale, me la cavo..”. Ogni volta risposte più distanti e monotone. Eravamo come due donne che si incontrano al supermercato fingendo di chiacchierare tranquillamente come quando erano compagne di banco anni prima. Tu, seduta da un lato del tavolo, parlavi del più e del meno cercando di evitare l’argomento, io, dall’altro, tenevo il tuo gioco, combattuta tra il bisogno di fare mille domande e la paura di ricevere altrettante risposte.
Poi mi facesti leggere quel tema. Mi riferisti che era per un concorso e io ti dovevo dire cosa ne pensavo. C’era tutto. L’ansia, l’incapacità di alzarsi dal letto la mattina, gli attacchi di panico…
Volevo sapere la verità. Volevo tornare a quando eri un disco continuo, che mi raccontavi ogni cosa. Volevo darti io, per una volta, il primo abbraccio. Ma quelle frasi mi colsero troppo alla sprovvista. Fu come precipitare da un palazzo, pochi secondi per elaborare, altrettanto pochi per decidere se lottare fino all’ultimo centimetro alla ricerca di un appiglio o abbandonarsi pietosamente al corso degli eventi. E io, malamente, decisi di non oppormi. Finsi di non cogliere cosa avevo davanti, mi concentrai sulla bellezza della tua scrittura, così delicata e al tempo stessa determinata, e ti dissi che era perfetto, che dovevi assolutamente, as-so-lu-ta-men-te, pubblicarlo. Inviarlo ad una commissione di scrittori sarebbe stato un passo avanti, confidavo nel loro aiuto, nella loro capacità di scavare a fondo dove io mi ero bloccata.
Trascorse del tempo, tanto tempo, senza che realmente cambiasse qualcosa. Non erano più i soliti 12 kilometri a tenerci distanti, un vero e proprio “muro di Berlino” si era insinuato tra di noi. Poi, finalmente, la svolta.
Era il tuo compleanno. Non eravamo sole e, forse, fu questo a fare la differenza. Lei sapeva e io no o, almeno, così avevo lasciato intendere. E quando, sdraiate sul tuo morbido letto a fare le solite chiacchiere da ragazze, si giunse al punto in cui non era più possibile mentire, ti svuotasti e mi raccontasti tutto, da cima a fondo, dai primi mesi in quella scuola ai pochi giorni in quelle successive, dall’angoscia per quel benedetto compito non riuscito alle lezioni private a casa, e poi quella cotta per Matteo, la paura di parlare coi compagni… In quel momento mi sentii davvero libera di dirti cosa pensavo, di abbracciarti, di darti della stupida per certe cazzate, di farti ridere e piangere, e poi di abbracciarti di nuovo. Soprattutto, mi sentii libera di chiedere perché, perché cambiare scuola così tante volte, perché una tale ansia a stare seduta a un banco, perché essere tanto timorosa di dimostrare di non essere perfetta, perché non dirmi niente apertamente…
Quel pomeriggio non cambiò niente effettivamente, solo il nostro rapporto, come se ogni parola detta ci avesse reso più mature. E oggi, quando per la prima volta ti ho visto con gli occhiali per poter leggere alla lavagna, troppo lontana rispetto al computer a casa al quale ti eri abituata, sono fiera di te e della tua voglia di non arrenderti mai, perché, come dice Lau Tzu, tutto ciò che il bruco chiama fine del mondo è solo una coloratissima farfalla.